Parole chiave nelle città

1. Parola chiave: Periferie

Foto F. Bottini

Le discussioni sulle periferie riguardano sia lo spazio che quanto contiene: chi vede solo palazzoni (grossi, brutti), e chi solo relazioni (conflitti, economie, consenso), raramente si mescolano i due aspetti. Jane Jacobs (1958, 1961), criticando lo spazialismo puro di certi progetti, proponeva una virtuosa convivenza di prospettive. La sociologa L.E. White (1951), suggeriva un “approccio femminile” ad attenuare certi indesiderati effetti dell’innovazione. Antonietta Mazzette (2014) invita a «risanare le periferie, partendo dai bisogni primari». La sequenza logica sarebbe: individuiamo bisogni, diamo una risposta adeguata anche dentro spazi diversi. Nessuna forzatura ideologica a ignorare che, come avevano anche intuito gli architetti razionalisti, la qualità dello spazio si impasta con la società.

Il problema è individuare un modus operandi ripetibile. Se si tratta di spazi socialmente e urbanisticamente inerti, si tratterebbe di stimolare vitalità, gente che va e viene facendo qualcosa di condivisibile. Chiusi dentro un veicolo non si conferisce particolare vitalità, diminuisce la sicurezza, e ne discende l’equivalenza fra quartiere più fruibile a piedi o in bicicletta, e quartiere vitale. Al fattore spazio si mescolano il fattore flusso e il fattore tempo. Ci sono posti vitali solo per una parte della giornata, e occorre realizzare – nello spazio e nel tempo – una miscela adeguata a garantire vitalità, una ragionevole via di mezzo tra congestione e deserto.

Ma non riproponendo un punto di vista unico, estraneo alle dinamiche reali. Se un’arteria commerciale decade per assenza di frequentatori, prima di sostenere attività alternative sarebbe il caso di capirne meglio le dinamiche: né subire il fascino del solo mercato, né quello di certo interventismo conservatore. E calcolare il «valore» di uno spazio urbano solo con criteri immobiliari non ha nulla a che vedere col suo valore d’uso, ovvero sul valore autentico nei tempi medi.

Secondo certi immobiliaristi, la soluzione si troverebbe nel mercato, inducendo o promuovendo flussi qualsivoglia di attività (Butler, 2014). Gli edifici senza vincoli fisici potrebbero in teoria essere destinati a ogni cosa: ma un vantaggio economico del genere è davvero un vantaggio? La vitalità è cosa complessa, non si calcola secondo il valore corrente al metro quadro.

Alle rivolte delle periferie si può rispondere con il medesimo metodo che in fondo ne ha creato i problemi? Pare non si colga il senso autentico della «Morte del modernismo» sancita dal critico Charles Jencks (1977). Alle cariche della polizia corrisponde ancora e solo (o soprattutto) una riflessione sulla qualità fisica. Non si avverte quanto sia tragicomico pensare così, e farlo ai livelli istituzionali?

L’identità urbana non abita più in cima alle torri di qualche complesso firmato, o nei sovrappassi da dodici corsie fra un grande contenitore e l’altro, ma sullo schermo dell’aggeggio che teniamo sempre in tasca o in mano: la città dei flussi, vive nel movimento, più che nella staticità degli spazi fisici. Le architetture assumono o perdono senso nel rapporto coi flussi, e il nimby del terzo millennio è l’intellettuale desueto che si incaponisce nella critica al cadavere della metropoli novecentesca, difensore di una democrazia espressa solo in metri cubi su metro quadro.

Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare dell’architetto Clarence Perry. Il buon Clarence era laureato in scienze della politica, orientamento sociologico e predilezione per i servizi pubblici. Solo il riscontro del rapporto fra utenza dei servizi e configurazione spaziale del contesto gli fanno incrociare il percorso con gli architetti, portandolo a formulare l’idea di neighborhood unit. Quindi Perry è un planner, ma architetto proprio no, non c’entra nulla con lo spazio fisico inteso come progetto spaziale, con la forma dei contenitori di relazioni (Perry, 1914, 1929). Torna in mente, osservando la pervicacia a considerare qualsiasi problema urbano come cosa da architetti. Sovviene anche un saggio che racconta «la mia carriera di urbanista per caso» (Feinstein, 2015). Dove si rievoca la giovane dottoranda in scienze politiche operante in un contesto urbano, poi con un posto di primo piano nella cultura del planning. Per contro Rem Koolhaas (2015) addirittura «denuncia» certe idee di smart city, che lascerebbero insolute questioni essenziali, ovvero quelle contemplate dalla professionalità dell’architetto. È la vecchia idea di architetto-urbanista novecentesco, che recepisce miriadi di input esterni, ma senza rinunciare al proprio ruolo demiurgico. La stessa concezione che ispira per le periferie italiane il senatore Renzo Piano e i suoi collaboratori (2014).

Torniamo un istante al problema banlieu, così come emerge dalle questioni criminalità disagio o anche terrorismo. Certo esiste un contenitore fisico delle contraddizioni, ma è impossibile pensarlo come essenziale e determinante: se è vero che la colpa non è dei progettisti, non sta a loro neppure trovare, in esclusiva, le soluzioni.

Colpisce che il nostro immaginario, anche quello di chi prende decisioni, riassuma la periferia in una precisa immagine spaziale, memoria atavica che collega forme disagio e degrado. Con evidente stupore quando si manifesta nella bassa densità del suburbio automobilistico, chissà perché sfondo sbagliato. Eppure sono anni, che romanzieri e statistiche raccontano che il disagio non ha bisogno della confezione di un progetto di case popolari. Anche il teorico degli spazi sicuri Oscar Newman ha dovuto ricredersi di fronte all’evidenza, ma l’automatismo scatta inesorabile, e al massimo l’eccezione conferma la regola.

C’è anche l’ingiustizia ambientale, i danni alla salute che quartieri mal concepiti e collocati provocano ai singoli e alla collettività. Ad esempio l’asma dove architettura e urbanistica non c’entrano: c’entrano etnia, reddito, condizioni familiari, più del grigiore di certi balconi in calcestruzzo (Keet, 2015). Se vale per l’asma, si può allargare ad altre patologie, fisiche e psicologiche, ma quel che conta è capire che il problema periferie non è (solo) cosa da architetti, e magari anche lo spazio fisico c’entra poco. Cambiate gli esseri umani di un quartiere e tutto cambierà: non esiste soluzione semplice, anche se la si presenta come tale.

I cosiddetti «luoghi malfamati» il vero esperto li riconosce al volo. Poi accadono efferati crimini in zone apparentemente insospettabili, e ci si adegua allo stereotipo, raccontando il contrasto fra lo scorrere di sangue e l’evidente (secondo la leggenda metropolitana) arcadia urbanistica. Il casermone ispira il delitto, la villetta è sinonimo di serenità (Falco, 2009), come il cittadino bianco in cravatta sprizzerebbe onestà, mentre il colored etnico farebbe scattare allarme sociale. Quanto sono condizionanti, i racconti dei cronisti: dagli abissi della psicologia criminale, alla calma rasserenante delle villette. E non è invece proprio questo, lo sfondo ideale come un altro dell’efferato delitto?

Con la demolizione delle case popolari di St. Louis del razionalista Minoru Yamasaki negli anni ’70, iniziava idealmente ciò che potremmo definire black-flight. Anche gli afroamericani potevano inseguire il sogno della casetta in proprietà, se non altro perché espulsi con le spicce dallo existenzminimum malriuscito di scuola corbusieriana. Così il pregiudizio genera un altro pregiudizio: identità spaziale solo proprietaria, e vengono in mente i nostri campi nomadi metropolitani, dove l’urbanistica del disprezzo induce precarietà, ottenendone in cambio irresponsabilità. La teoria degli spazi sicuri (Newman, 1972) sul pregiudizio ha elaborato il modello casermone in affitto uguale instabilità, casetta suburbana garanzia di valori. Qualcosa di vero, ma anche tanta ideologia.

La condanna degli spazi razionalisti, dell’idea di urbanistica che ne definiva la cornice, rende invisibili i confini tra le architetture e le persone. Un errore, pensare che cambiando la conformazione anche le dinamiche sociali si orienteranno verso le intenzioni progettuali! E non a cercare un altro luogo per fare le stesse cose. La fuga verso il suburbio alla fine si è risolta in povertà spalmata sul territorio, resa invisibile dietro le siepi, ma certa vulgata conformista ribadisce: demoliamo le roccaforti del razionalismo per liberare l’individuo. Sarebbero quegli spazi a provocare criminalità, disoccupazione, emarginazione. Siamo esattamente allo stesso malinteso novecentesco su cui avvertivano in tempi non sospetti gli studiosi sociali (White, 1951), ma non furono ascoltati.

C’è la vignetta di quel disegnatore ottocentesco, un edificio a molti piani dove si notano botteghe al pianterreno, e poi sopra le residenze dalle borghesi alle sottoproletarie, e infine misero-bohemién. Salire le scale è inoltrarsi nelle viscere sociali, il presunto interclassismo del quartiere è solo una imposizione da vincoli tecnici. Con gli ascensori e i trasporti meccanici scompariranno edifici e quartieri misti, e il concetto di «autosufficienza» maschererà la «segregazione»: spaziale e sociale, per pianificata omogeneità. Infine si abbandonano i quartieri urbani, per andarsene verso le nuove frontiere dello sprawl in un mondo segregato dentro ambiti privati.

La classica neighborhood unit resta solo per poveracci, concentrazione di disagio, che esplode ciclicamente. Si fa strada l’idea che è l’ambiente ghettizzato il crogiolo del disagio: occorre tornare a qualche forma di quartiere misto, non solo nelle funzioni ma anche nelle fasce economiche (Semuels, 2015). Gli strumenti possono essere di tipo urbanistico, fiscale, agevolazioni per chi costruisce, a scala di regione urbana, non certo comunale. Come dimostrano tutte le vicende di rivolte urbane, l’integrazione alla fine si fa sentire, in termini di sicurezza, valore degli spazi, qualità dell’abitare. Non è proprio tutto, ma quasi.

2. Parola chiave: Riqualificazione

Foto F. Bottini

La parola brownfield sta per terreno industrializzato, sfruttato, in genere capannoni dismessi, ma anche altri ambienti «imbruniti» da urbanizzazione obsoleta, che potrebbero contenere trasformazioni, salvando superfici greenfield. Ma insediamento significa comunque urbanizzazione, possiamo solo decidere se sarà sostenibile o no. L’opposto di chi va a costruirsi la villetta e così facendo elimina un pezzo di natura, quando avrebbe potuto abitare in città, dove ci si lamenta dell’inquinamento, dei rumori, ma scappare in campagna vuol dire trasformarla in città. La soluzione si può cercare in una elevata qualità urbana e nel recupero dei brownfield: densità accettabili, efficienza diversa da quella dell’omino di Tempi moderni stritolato dagli ingranaggi (CPRE, 2014).

I giovani cosiddetti Millennials esprimerebbero una nuova domanda di spazi, secondo il mercato riassumibili in: appartamenti microscopici, e grande adattabilità. Così ex quartieri complessi soccombono a un’offerta standard, e le fasce a redditi inferiori sono espulse verso il suburbio, replicando con soggetti diversi il processo novecentesco dello sprawl (Cortright,2014). Forse investire sui giovani significherebbe qualcosa di diverso da quello spazio segregato delle politiche urbane liberiste.

Le città ingurgitano soggetti sociali e competenze, espellendone altri. Oggi arrivano le attività terziarie qualificate, o a volte il più sofisticato mixed-use di chi abita accanto all’ufficio, sia nella versione creative class che in altre. La gentrification è magia bianca o magia nera? La sostituzione sociale nei quartieri era un attentato alla vitalità urbana (Glass, 1964), ma dagli anni ’80 in poi la si interpreta come riqualificazione. Anche articoli scientifici ci spiegano quanto sia buona, nonostante il mixed-use ridotto a residenze elitarie e recluse, uffici, a una spruzzata di locali di tendenza.

La vera sfida è di unire trasformazioni fisiche a una rivoluzione sociale e di attività, alternativa sia alla gentrification che al classico quartiere omogeneo, interpretando in spazi postindustriali l’idea di startup come filiera che va dalla casa, al lavoro, al tempo libero, allo spazio verde e alle produzioni agricolo-sociali (Burt, 2014).

Il racconto Il Diavolo nella Bottiglia di Louis Stevenson ci ricorda quanto sia rischioso evocare gli inferi. Il vero problema però è capire cosa siano esattamente, gli inferi, che nella città moderna si chiamano bassifondi, degrado, abbandono. Il XIX ha perfezionato l’antidoto dello sventramento, cura sbrigativa, ma un passeggio elegante al posto di un dedalo di vicoli, certo non sfiorava neppure la questione sociale. Già nelle pagine dei primi conservazionisti, emerge la speranza di innovazioni tali da eliminare l’esigenza delle trasformazioni spaziali, per adeguare i tessuti a nuove domande, perché esorcizzando così i demoni dei bassifondi, se ne evocavano di peggiori, spostando e incancrenendo il problema.

L’intuizione originaria è quella che ispira la teoria dello sviluppo locale innescato dalla creative class, motore di rigenerazione, in grado di esorcizzare gli inferi (McGillis, 2010). È il filone delle trasformazioni urbane e sociali di stampo liberale, sino alle invasioni odierne di hipsters e locali di tendenza in tutte le metropoli mondiali. Resta da vedere se non si tratti ancora di un diavolo sotto mentite spoglie, i sintomi dei comitati contro la movida fanno sospettare qualcosa (Omidi, 2014).

Chi cerca casa rapidamente capisce che la soluzione ideale non corrisponde mai al portafoglio, ogni centimetro quadrato delle situazioni ideali vale oro. Se le quotazioni sono inferiori, si tratta solo di rinviare spese, oppure rinunciare a vantaggi.

Se ragioniamo come un operatore immobiliare, fedele alla trinità: location, location, location! Lo spazio più ambito è il centro storico. Le scelte delle amministrazioni a migliorare spazi pubblici, affiancate a investimenti privati, hanno fatto tornare in vita tantissimi quartieri. Ma qualità urbane molto auspicabili si trovano solo altrove: in alcuni tipi di periferie, nei centri minori. Basta sapere cosa si vuole, andare dove ci porta il cuore, leggere i contesti secondo categorie preconcette, non aiuta a capire, lasciando le divaricazioni ideologiche fra partigiani della città e cantori della libertà suburbana.

Un buon metro di giudizio, è la fruibilità pedonale, che si trascina permeabilità, socialità, funzioni miste, elementi del quartiere complesso senza necessariamente evocarne forme architettoniche e sedimentazione storica, e infatti si applica soprattutto ai nuovi progetti (Leinberger, 2011). L’istinto che ci attira verso alcune forme architettoniche tradizionali, è lo stesso che poi induce quartieri svuotati di attività, salvo mantenere artificiosamente una certa atmosfera (Minton, 2006, 2009). Di gran moda anche abitare in costosi loft: ma che differenza c’è, fra stare lì o nella villetta con giardino? Pochissima.

Due le tecniche per trasformare un quartiere: edilizia nuova, o rinnovata; sostituzione sociale, con infinitesime trasformazioni. I due estremi si intrecciano, e in entrambi esiste un ruolo della comunicazione immobiliare. Oggi questa sembra aver fatto un balzo gigantesco, sostituendosi o quasi alle due forme brick & mortar o sociale classiche.

Perché un immobile in un luogo vale infinitamente di più di un altro in un posto equivalente? La parte da leone la può fare il brand, indipendentemente sia dai valori da altri fattori. Spazi di pregio, investimenti sicuri, non possono competere con tuguri, magari, che però esibiscono un marchio. In pratica senza neppure sfiorare un quartiere gli si appioppa un bel nome, strappandogli l’anima (Mahdawi, 2015).

Nel processo di suburbanizzazione è avvenuto che le intelligenze, costrette dentro l’office park, penalizzate dalla villettopoli monoclasse, si siano molto affievolite. Le imprese valutano il fattore intelligenza, da non sprecare andandone a prelevare quando serve, ma vivendoci dentro, ovvero riprendendosi quartieri degradati e frange periferiche (Cortright, 2015). C’è però il rischio di una specie di suburbanizzazione della città, il riprodursi dei meccanismi di segregazione delle fasce di età e reddito, ancora promossa da certo azzonamento paleotecnico. Una buona notizia arriva da New York: il boom trascinato da imprese innovative, crea anche posti meno qualificati nel turismo, accoglienza, servizi. Re-innesca insomma un metabolismo propriamente urbano, l’humus da cui trae alimento la vera innovazione.

La sostituzione sociale nei quartieri aumenta la qualità urbana, ovvero l’iniezione dei abitanti a reddito elevato coincide con qualche miglioramento. Si demoliscono le case fatiscenti, si adeguano servizi, e attività (esempio un negozio che cambia clientela e si adegua). Però c’è anche chi distorce il termine gentrification ben oltre l’immaginabile. Una ricerca afferma: «Abbiamo comparato le fasce di reddito nei quartieri centrali metropolitani rispetto alle aree suburbane a partire dal 2000. Osservando le variazioni di reddito […] abbiamo rilevato […] un indicatore coerente con la gentrification» (Hartley e Kolliner, 2014). Ora, certo cresce il reddito nei quartieri, ma questa prospettiva di osservazione si stacca dall’orbita dell’ambiente urbano, e ci vuole fede cieca in certe mani invisibili, per chiamare trasformazione qualcosa di vagamente possibile. Sono cresciuti i valori immobiliari? Quegli abitanti investono? Ci sono segnali di evoluzione commerciale? Mistero.

Nell’epoca del telelavoro, di coworking, economie della condivisione, smart city, se esiste una oggettiva differenza tra la catapecchia infestata dagli scarafaggi e il trentesimo piano di un grattacielo, la differenza con quelle innovazioni finisce per assottigliarsi. Una buona metafora è un quartiere urbano una mattina di mercato, dove pullulano persone con uno smartphone potenzialmente in grado di svolgere operazioni, economiche e non, con altre parti del mondo, prossime o assai distanti. Relazioni che un tempo avvenivano per prossimità, qualificando luoghi, coesistono con altre indifferenti a quel fattore: in teoria, nudi e seduti nel fango si può presiedere un consiglio di amministrazione.

Oggi col telelavoro che senso avrebbe più – salvo quello speculativo naturalmente – la downtown terziaria coi grattacieli e i flussi di pendolari, se si può lavorare da qualunque postazione? Non è difficile immaginare un’industria diversa grazie a miniaturizzazione, reti, conversione energetica, o un commercio meno concentrato in grandi contenitori, o l’agricoltura a km0 e via dicendo. Al mixed-use funzionale si accosta quello sociale, per fasce di età e reddito, a ribaltare la logica del neoliberalismo urbanistico, quel coincidere di riqualificazione con gentrification e suburbanizzazione metropolitana. Ecco volendo tutti i presupposti di una nuova idea di bonifica socio-urbanistica (Hall, Rogers et. al. 2015).

La svolta post-industriale di molte città occidentali pare orientata all’idea di attrarre talenti, marginalizzando popolazioni meno acculturate: un ideale preconfezionato di «città vivibile» che genera esclusione. Parrebbe quasi un disegno globale di gentrification pianificata.

A Copenhagen un responsabile pubblico dichiarava: «noi prendiamo tutta la spazzatura, perdonate il termine, per colpa degli alloggi economici. La classe media, che vorremmo che abitasse qui, si sposta in Svezia» (Larsen, Lund Harsen, 2008). Impossibile non riconoscere la volontà politica di espellere soggetti indesiderati, giustificando tutto con la logica del mercato.

Mentre si potrebbe garantire che la riqualificazione avvenga al di fuori della logica speculativa, sommando utilità sociale e utili economici: la Promenade Plantée ha portato benefici alla comunità parigina, là dove l’osannata High Line ha invece prodotto effetti devastanti, coi ceti medi soppiantati da famiglie trendy. Oggi i turisti si aggirano tra sfiziosi localini, ma passata l’onda modaiola ci sarà – di nuovo – solo un ingombrante manufatto, magari da riqualificare nuovamente (Ottaviano, 2015).

3. Parola chiave: Commercio

Swedish Shopping Centres, 1961

Immaginiamoci un dialogo: «Pierino (o Pierina), vai così bene a scuola, cosa vorresti fare da grande?». Attimo di riflessione, e poi la risposta: «Il mezzadro» (Pierino) oppure «La massaia» (Pierina). Da restare esterrefatti, non fosse che esistono oggi sottili messaggi, del tipo torniamo ai sani valori di un tempo. Il comune di Milano nell’ambito di Expo 2015 sperimenta l’iniziativa di farmers’ market sparsi in città. Uno alla Stazione Centrale, così che il viaggiatore sceso dal treno si immerga nel clima paesano tra i prodotti delle campagne che circondano la metropoli, a un tiro di sasso dai palazzoni. Il messaggio subliminale suona: ecco cosa vorremmo essere! (“Comune: 50 aree …”, 2014)

Forse invece del solo mercato contadino ci vorrebbe anche qualcosa che guardi al futuro, proporre alla clientela metropolitana prodotti di filiera corta, trasformati confezionati commercializzati nel raggio di qualche centinaio di metri. I Pierini vogliono fare il mezzadro, né le Pierine recitare il ruolo della massaia: diamo un’interpretazione progressista ai temi dell’agricoltura!

Sulle aperture continuative degli esercizi commerciali, spesso si fa confusione fra diritti dei lavoratori e diritto alla città. Il tema è serio, perché la vita urbana si compone di un intreccio complicatissimo di pieni e vuoti: dormiamo mentre altri lavorano, e quando ci si sveglia si trova tutto a posto. Le cose valgono anche per l’equilibrio natura/artificio: si sta facendo strada un’idea di rinaturalizzazione.

Non un’invasione di erbacce a far crollare tutto, riportandoci allo stadio di contadini chini sul solco ad ascoltare l’Angelus. Ma una metropoli che lascia adeguati «vuoti» di spazio-tempo per lasciarli riempire da elementi naturali, in cui si autoriproducono specie vegetali, animali (Bramley, 2014). La logica della fabbrica sta fuori da lì, siamo esseri viventi, in un pianeta vivente, e ragionare come se le cose funzionassero solo a ingranaggi e pulegge ha fatto un sacco di danni. In questo senso, è un falso problema discutere se sia giusto o no che la città viva sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno.

Il centro commerciale naturale non esiste, nulla di naturale nell’allinearsi degli esercizi mescolandosi ai flussi e relazioni così da costituire un nodo di vitalità. L’unica cosa naturale è la voglia di darsi da fare. All’inizio centro commerciale e città coincidono, ce lo ricordano gli schizzi di Victor Gruen (1960) quando, a fornire una legittimazione storica al suo scatolone automobilistico ad aria condizionata, esordisce con una veduta a volo d’uccello dell’Agorà. Poi, una specializzazione sempre più spinta.

In certe ore di punta del passeggio, salta all’occhio la differenza fra la vitalità di nuovi quartieri pieni di curiosi, e quella in sordina delle high street consolidate. Curiosare non equivale a influire sui flussi di cassa, magari l’arteria tradizionale oggi fattura di più, nel quartiere postmoderno si trattava soprattutto di promozione immobiliare. Ma la sensazione resta: sorge il luminoso futuro, tramontano i bei tempi, i flussi si incrociano.

Se si lascia che la «natura» faccia il proprio corso, sempre più gente andrà a sovraffollare i due o tre livelli commerciali del nuovo quartiere, estendendo vitalità (e congestione) alle vie adiacenti; e risucchiandone dalla high street. Inevitabile il degrado, la convivenza fra abitanti, spazi abbandonati, flussi che fuggono una zona poco attraente (DeBoer, 1937).

All’inizio negli Usa i grandi operatori commerciali, dominanti il mercato urbano, fondavano sedi decentrate, adattandosi alla dispersione insediativa. In Europa lo scatolone sbarcava come organismo già definito, in regioni urbane dall’organizzazione compatta e complessa, ma operando nei modi sperimentati in patria. Di particolare interesse il caso britannico dove certi effetti hanno modo di manifestarsi prima. La Commissione parlamentare per la rivitalizzazione delle arterie commerciali oggi spiega che: «non è nell’interesse di nessuno cercare di far sopravvivere uno stereotipo storico di arteria commerciale urbana dominata da esercizi tradizionali [ma] favorire spazi urbani e arterie in grado di garantire diversi equilibri fra esercizi anche tradizionali, servizi, residenza, spazi pubblici, funzioni culturali e per il tempo libero». Tendenza «desegregante» nelle politiche urbane contemporanee, favorita da nuove tecnologie ad affermare come centrale il principio della resilienza (Wrigley, Brookes, 2014).

Capita di confondere una via commerciale con un’altra, subendo l’effetto clone-town stigmatizzato dalla New Economics Foundation (Cox, Squires et. al., 2010). Le grandi catene trasferiscono in città il modus operandi di una specie di centro commerciale all’aperto. Certo di sicuro ben venga una catena in franchising invece di locali vuoti e serrande abbassate. Però esiste il rischio di estrema fragilità, che a un solo abbandono seguano come pedine del domino altri, desertificando un’intera zona, è a rischio la resilienza.

Due i problemi, che spesso si confondono nella contrapposizione fra esercenti locali e grandi catene: superficie e organizzazione. Il primo è legato alla dispersione insediativa, e all’orientamento automobilistico. Il secondo, organizzativo, non salta immediatamente all’occhio, ma può rappresentare uno sbocco delle politiche tese ad arginare il consumo di suolo. Prima, però, occorre valutare chi induce vitalità o meno, chi accresce o diminuisce identità, chi può accompagnare processi di riqualificazione, o garantire che non ce ne sia bisogno. Non sempre piccoli e locali significa virtuosi. Ma senza un coordinamento della partecipazione di piccoli e grandi soggetti a iniziative congiunte (Business Improvement District) la trasformazione in shopping mall virtuale pare un destino segnato (Houstoun, 2012).

Una tendenza recente è stata la concentrazione di esercizi in alcuni punti o corridoi, per confrontarsi con la concorrenza suburbana. Con l’automobilismo sono i centri commerciali ad offrire lo sbocco più comodo, risolta al meglio la questione del parcheggio. Oggi si manifestano tendenze opposte, fra le nuove generazioni emergono domande diverse, che a partire da mobilità e comunicazione si estendono poi agli ambienti urbani, chiedendo qualcosa di simile al quartiere tradizionale, con aggiunta di spazi di lavoro. Ma arriva il Grande Predatore Commerciale: se un corposo segmento di clientela sceglie di stare in certi ambienti, bisogna seguirlo anche lì. Noti marchi accendono discrete insegne su qualche centinaio di metri quadri, apre il big-box «urbano» al pianterreno di un edificio con appartamenti.

La bottega d’angolo è occupata dalla grande distribuzione, grande certo nella capacità di ramificazione. Come le biglietterie della rete trasporti pubblici di Londra, trasformate in negozi, con la spesa online da ritirare sulla via di casa (Cooper, 2014). Cosa resta, agli esercizi tradizionali? Poco probabile che prosegua il dualismo sbilanciato fra suburbio quartieri urbani. E si capiscono anche meglio le polemiche sugli orari, o le pedonalizzazioni: il settore tradizionale si sente minacciato in casa, e le prova tutte (protezionismo incluso) per tutelarsi. Ma è una battaglia di retroguardia.

L’obiettivo di riconciliare città e automobile è centrato con lo shopping mall. Il rapporto fra automobilismo e consumo, così come lo vogliono i negozianti, si risolve solo così. Ma qualcuno non si convince, e scimmiotta male il meccanismo perfetto, creando guai. Non si improvvisano, i rapporti fra strada ed esercizi affacciati, come se ciascun negozio si considerasse centro del sistema, pensasse la strada solo in funzione del proprio lavoro. Nascono vie intasate, marciapiedi impraticabili, spazio pubblico obliterato dai veicoli.

Oggi la nuova contesa della pista ciclabile, lama che recide il cordone ombelicale tra sosta dell’auto e ingresso del negozio. Lo scontro riguarda l’idea di città, assimilata negli anni a un centro commerciale virtuale, con relativo modus operandi. Tutto già sconfitto in partenza, e tempo di iniziare a cambiare: anche il non automobilista ha un portafoglio pronto per essere svuotato (Andersen, 2014).

L’attività agricola nelle aree cittadine ha una storia lunga, che nel ‘900 conta gli orti di guerra, e in Italia fonda alcuni aspetti essenziali dell’urbanistica moderna (INU, 1937). Se volessimo fissare una data di nascita del ciclo alimentare metropolitano contemporaneo, sarebbe l’anno di pubblicazione di Plenty (Smith e MacKinnon, 2007), storia di un anno di «dieta delle cento miglia». Da cui emerge come la dieta debba forzatamente avere una impostazione ideologica, perché oggi le attività produttive alimentari cittadine non sono inserite nel tessuto fisico, sociale, economico, e ciò obbliga al fai da te per il passaggio dal campo al piatto.

Non è un caso se l’esperienza di Growing Power stenta a trovare uno sbocco commerciale. Ciò che cresce nelle grandi città arriva sulle tavole dei consumatori, ma con improvvisazione e precarietà. Significativa la vicenda di una azienda a orientamento sociale di Vancouver con un negozio proprio: i prodotti devono trovare uno sbocco normale, e se possibile anche nella distribuzione organizzata (Shore, 2014). Non piacerà a certo mondo militante, ma alla città di sicuro.

Con la moda degli stili di vita urbani, della benzina che costa e scalda il pianeta, si riscoprono i quartieri di città, gran marchi griffati si ribattezzano urban. Ma non si vuole perdere il vantaggio competitivo di quando un grande contenitore lavorava in situazioni di monopolio. Lo strumento è una convenzione coi comuni: si recupera un’area dismessa, ci si accolla il costo delle bonifiche, del verde e servizi, delle case economiche (St. James, Sainsbury’s, 2015), ma al centro sta un supermercato, con già installata anche la clientela!

NOTA: il presente testo era stato chiesto all’autore come contributo a un volume collettaneo «di prossima pubblicazione» quattro anni fa. Trattandosi di un percorso di riflessione sostanzialmente interno ai riferimenti culturali e testuali di questo sito, non pare irrispettoso pubblicarlo «anticipatamente» qui (f.b.) 

Riferimenti bibliografici (i links diretti al titolo aprono pagine di questo stesso sito con testi in italiano)

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